Nella foto: Raj Kapoor al Congresso FISM 2017
Ci sono forme di SM per cui ancora non esistono farmaci. Ma la comunità scientifica è impegnata su diversi fronti grazie all’azione della Progressive Multiple Sclerosis Alliance, come spiega Raj Kapoor, neurologo al National Hospital for Neurology and Neurosurgery di Londra e membro del Comitato Scientifico della Fondazione Italiana Sclerosi Multipla, che è intervenuto al Congresso FISM 2017 in corso a Roma fino al 31 maggio
Perché ancora non si riesce a dare una risposta terapeutica alle forme progressive di sclerosi multipla?
«La ricerca nel campo della sclerosi multipla ha prodotto grandi successi: nella forma recidivante-remittente abbiamo oggi diverse opzioni di trattamento. Purtroppo per le forme progressive non abbiamo ancora delle risposte. La ragione è che la forma recidivante-remittente è la più semplice da comprendere nel suo sviluppo, mentre le forme progressive sono assai complesse. Ma non è vero che siano state o siano meno studiate dalla comunità scientifica: purtroppo tutto quello che è stato provato finora non si è dimostrato efficace. Ma è comunque servito a capire che non potevamo applicare a queste forme le strategie che invece si sono dimostrate vincenti nella forma RR».
Quali sono le strategie di ricerca e sviluppo sui dobbiamo puntare per trovare delle soluzioni per questi pazienti?
«Per prima cosa dobbiamo conoscere meglio la patofisiologia della progressione. Nella forma recidivante-remittente il meccanismo principale è l'infiammazione, e sulla base di questa conoscenza possiamo sviluppare – e lo abbiamo fatto – molti farmaci. L’ipotesi era che gli stessi medicinali potessero essere usati nelle forme progressive, ma quando abbiamo cominciato a testarli abbiamo capito che in questo caso la situazione è molto più complessa. In particolare, non abbiamo ancora capito del tutto cosa sia a innescare la progressione. Una volta compreso questo meccanismo potremmo mettere a punto delle strategie per sviluppare nuovi farmaci o per trovarne di vecchi che possono essere usati a favore delle persone con SM progressiva».
Il cosiddetto “drug repositioning” può aiutare nella ricerca di soluzioni per problemi che oggi non trovano una risposta nelle persone con SM?
«L'idea del riposizionamento dei farmaci, cioè di sfruttare molecole che sono già usate ma di farlo per patologie diverse da quelle per cui sono indicate, è molto promettente e abbiamo già degli esempi di successo nel campo della sclerosi multipla. Con il mio gruppo di ricerca, per esempio, siamo partiti dalla conoscenza di un difetto in un meccanismo che coinvolge i canali di sodio nelle persone che hanno la neurite ottica, un'infiammazione del nervo ottico che causa una perdita improvvisa della vista e che colpisce le persone con SM. Una volta individuato il nostro target abbiamo cercato fra i farmaci già usati una molecola che agisse modificandolo e abbiamo selezionato la fenitoina, un antiepilettico. Con uno studio è stato quindi dimostrato che nelle persone con neurite ottica acuta in cura con questo farmaco il nervo ottico è più protetto, con una degenerazione inferiore del 30% rispetto a quelle a cui è stato somministrato il placebo. Ma ci sono anche delle ricerche nel campo della rimielinizzazione del nervo ottico: la clemastina fumarato, antistaminico comune, si è dimostrato capace di ridurre il danno del nervo. Il riposizionamento funziona».
Le persone con le forme progressive vanno incontro a una disabilità crescente. La ricerca prende in giusta considerazione questo fattore?
«Non abbastanza. Negli scorsi decenni non si è prestata molta attenzione a come le persone con SM vivono e a come poter migliorare la loro condizione grazie alla riabilitazione. È stato uno sbaglio perché fino a quando non troveremo dei farmaci capaci di prevenire la disabilità, abbiamo l'obbligo di concentrarci sulle strategie che ne bloccano la progressione, e queste sono anche strategie di riabilitazione. Per la Progressive Multiple Sclerosis Alliance trovare dei finanziamenti per fare della ricerca in questo campo è una delle priorità. Dall’altra parte, però, per introdurre questo elemento all’interno dei trial clinici dobbiamo trovare un modo per misurare i progressi nella disabilità e l’impatto che questi hanno sulla qualità di vita delle persone. Una strada è quella di aggiungere la voce dei pazienti nella valutazione attraverso i patients reported outcomes (PROs), che rendono evidente cosa sta realmente cambiando per le persone. Gli obiettivi degli studi devono avere un significato importante anche per i pazienti. E questo deve essere chiaro anche alle agenzie regolatorie che decidono della registrazione dei farmaci: dobbiamo essere sicuri che i farmaci che arrivano sul mercato facciano davvero la differenza per le persone».
Lei ha citato la Progressive Multiple Sclerosis Alliance, qual è il suo ruolo nello sviluppo di nuove strategie di ricerca per le forme progressive?
«Dobbiamo partire da un assunto: lo sforzo per trovare delle soluzioni non può che essere globale, solo mettendo insieme le competenze possiamo produrre risultati importanti. La PMSA fa esattamente questo: unisce persone che operano ai massimi livelli nell’ambito della sclerosi multipla e li invita a discutere i problemi e mettere insieme cervelli e forze. La PMSA include le principali società scientifiche del mondo – fra cui quella italiana che riveste un ruolo di primo piano nell’Alleanza –, i rappresentati delle persone con SM, le aziende, le agenzie regolatorie. L’obiettivo è quello di coinvolgere tutti quelli che sono interessati a trovare delle soluzioni per le forme progressive, perché solo così sarà possibile identificare i problemi rilevanti e finanziare progetti di collaborazione internazionale che si pongono l'obiettivo di risolverli».