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Bianco è il colore del danno, capitolo 1

 

Capitolo 1

Bianco è il segnale massimo

 

Via tutti gli oggetti metallici. Niente orecchini, bracciali o anelli, nessuna molletta, lenti a contatto, niente fermagli per capelli, niente reggiseno, cinture, occhiali, protesi dentarie mobili, chiavi, ganci, bottoni metallici, spille, niente monete, cellulari, tessere magnetiche. Meglio senza trucco e smalto, potrebbero contenere metallo.
– Ha la chiusura lampo sui pantaloni, ganci di qualsiasi genere?
– No, ho la tuta, non è la mia prima volta.
Sorrisi, sospiro.
– È in stato di gravidanza?
– No.
– Pacemaker?
– No.
– È digiuna da otto ore?
– Sí.
– Deve fare anche il mezzo di contrasto?
– Sí.
– Allergie al mezzo di contrasto?
– No.
– Ha con sé l’esame della creatinina?
– Sí, di solito è tutto a posto.
– Ha mai dato noie?
– No, può cercarmi la vena.
– Prego, firmi.

 

Firmo.
– È nervosa, sarà lunga, vuole un calmante?
– No, grazie, ce la faccio.
– Si sdrai.
Mi sdraio. Il radiologo mi fissa una maschera intorno alla testa per bloccarla. Sistema due pezzi di materiale spugnoso grigio ai lati opposti, vicino alle orecchie, per attutire il rumore.
– Vuole anche i tappi?
– No, grazie.
– Non si muova, mi raccomando.
– Ci provo.
– Questa è la pompetta, se sente che la claustrofobia la disturba, se ha un principio di attacco d’ansia o respira male prema la pompetta e la tiriamo fuori.
– Va bene, grazie, ce la faccio.
Sento il gadolinio, il mezzo di contrasto, che entra per via endovenosa. Serve a capire quando sono comparse le lesioni nel cervello o nel midollo spinale, a dare loro un’età, quelle che non captano il mezzo di contrasto sono piú vecchie delle altre. Un suono metallico indica che il lettino sta slittando nel macchinario, un cilindro lungo un metro e mezzo per sessanta o settanta centimetri di diametro. È l’altare della mia trimestrale risonanza encefalo, tronco encefalico, midollo cervicale, midollo dorsale con e senza
mezzo di contrasto.
Chiudo gli occhi, do un ultimo sguardo alla stanza, la luce al neon sfigura le dimensioni delle pareti, il mondo è appiattito e bidimensionale. L’anestesista saluta l’infermiere, che saluta il radiologo, sorridono. Uno è seduto di fronte al macchinario, uno in piedi, un altro ancora esce chiudendosi la porta di alluminio anodizzato alle spalle.

 

A separare me e loro, i malati dai sani, c’è una parete trasparente. 
Loro possono vedermi, io non posso vedere loro, e scelgo di non vedere nient’altro. Quando il lettino fa l’ultimo scatto, chiudo gli occhi, resteranno chiusi per un’ora. È il solo modo che ho di sfidare la claustrofobia. Sono stesa, orizzontale tra due magneti. Ho le mani lungo i fianchi. La voce dall’altra parte della stanza, quella dei sani, dice: «Cerchi di deglutire il meno possibile  altrimenti dobbiamo ricominciare». Chiedo a entrambe le palpebre l’impegno a non distrarsi e restare chiuse, appiccicate al bulbo oculare, e provo a non deglutire. La risonanza funziona come una calamita: misura come reagiscono i tessuti in un campo  magnetico molto forte, quelle reazioni diventano immagini del corpo. Le onde risuonano sotto forma di segnali, deboli, la lingua del magnete e i segnali, quando vengono captati, diventano una mappa di impulsi in scala di grigi.
Nero è assenza di segnale. Bianco è segnale massimo.
Le mie lesioni sono bianche e la mappa in scala di grigi è la vita della malattia, il suo stare, il suo evolversi, dentro di me, potenzialmente degenerativo. Ma non ci penso, ho le palpebre serrate, la saliva si accumula in bocca, le braccia lungo i fianchi in un orizzontale sull’attenti, la coperta di pile bianco sporco sulle gambe, i piedi nudi in direzione dei sani. Non ci penso, che può diventare degenerativa. Mi concentro sulle vibrazioni sonore della risonanza. La macchina fa microrumori, un picchiettare costante, colpi di martelletto che accelerano, rallentano e accelerano ancora, poi si irrobustiscono, e battono forte, come il colpo di un tamburo a pedale. Non sono nel tubo, ho ventitre anni, sono le due di mattina, sul palco i Lali Puna sotto il palco io, sto ballando, sono vicina alla cassa, sento i bassi vibrare sotto i piedi, i colpi della batteria che dettano il tempo, e chiudo gli occhi. Il  campionatore distorce la voce di Valerie Trebeljahr, lei balbetta, esita, il campionatore ripete. Lei balbetta, esita, il campionatore ripete. Io ballo. Ho ventitre anni. Faking the Books. Le bobine dei magneti si espandono e si contraggono e poi si espandono e si contraggono ancora, e vibrano sempre piú forte, generano un rumore costante, un arpeggio che cambia cadenza e intensità in base ai nervi che la macchina sta scansionando. Quando cambiano suoni e intervalli capisco dove i sani stanno spostando lo sguardo.
Martello. Martello. Cervicale. Tamburo. Martello. Tamburo. Encefalo. Le vibrazioni del tubo magnetico sono il campionamento
della mia malattia, me lo ripeto ogni volta, immobile, stesa orizzontale e sull’attenti, la testa in una maschera, la spugna intorno alle orecchie, un ago infilato nel braccio destro, la pompetta chiusa nel palmo della mano, loro scansionano, tamburo martello tamburo ma io non sono lí, io continuo a ballare vicino alla cassa, con i bassi sotto i piedi e gli occhi chiusi. Risuonano i tessuti, cioè risuono io.
Sorrido di loro, dei sani, e rido di me. Risuono magnetica in un corpo malato.

 

 

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