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Maria Luisa Garatti, dal divano buio alla Maratona di New York: «corro oltre la sclerosi multipla e sono una donna libera».

La storia di Maria Luisa Garatti, avvocato civilista di Brescia. Dal ‘buco nero’ di immobilità in cui è sprofondata per 8 anni dopo la diagnosi di SM, alla capacità di rialzarsi e mettersi a correre, fino alle 11 maratone cui ha partecipato dal 2016 a oggi. Con la voglia di condividere con tutti ogni partenza, ogni traguardo.

17/06/2021

 

«Seinovembreduemilasedici. Scritto così, me lo tatuerei nell’anima». Ci sono date decisive, per tutti noi, e quando le ricordiamo ci sembrano così vicine: la prima volta che abbiamo fatto l’amore, l’ultimo esame a scuola, la nascita di nostro figlio – se ne abbiamo -. Per Maria Luisa Garatti, per gli amici Merilù, avvocato bresciano e soprattutto maratoneta, quella è la data del cuore, anzi, dell’anima: «Eravamo al via della maratona di New York. Io, Andrea, Ivana e Linda, rapiti dallo skyline della città. E sai cosa c’è, che un giorno mi avevano detto che le mie gambe si sarebbero fermate. Per anni, dopo la diagnosi della sclerosi multipla, ero stata, letteralmente, sdraiata sul divano, delusa, depressa. Ma quel giorno ero arrivata lì. Sono stati 42 chilometri di festa – fuori – e dentro di me ho rivissuto tutta la mia vita. Ho fatto un viaggio nel viaggio, una corsa nella corsa. Mi sono rivista la mia vita e tanti passaggi della mia vita con la SM, capendo che i limiti possono essere superati e spesso sono nella nostra testa. Infatti uno dei mie motti è: “Merilù, andiamo a buttare il cuore oltre l’ostacolo chiamato sclerosi multipla”. E quel giorno, come in ogni corsa che faccio – io che andrei sempre in giro in equilibrio precario sul mio tacco dodici - mi sono sentita libera, libera di andare oltre, oltre la sclerosi multipla. La corsa mi ha aiutata a vedermi in altro modo. Non più come una malata. Mi ha aiutata a partire.

E lo stesso è accaduto ai miei compagni di avventura, , Andrea, Ivana,  Luana, Marina, Francesco, Corinna (cui poi  si sono aggiunti Cristian, Matteo, Alberto) tutti trascinati dallo stesso desiderio di andare oltre la SM. In quelle 4 ore e mezza ci siamo sentiti nuovamente vivi, nuovamente persone senza alcun tipo di patologia. Siamo arrivati tutti al traguardo, e la nostra autostima era aumentata a mille. Chi scopre di riuscirci una volta, può riuscirci sempre. Anche se nulla è per sempre e tutto è incerto, come ci ha insegnato prima la SM e ora questo anno e mezzo di pandemia, è bello, fino a quando è possibile, vivere ogni attimo come un dono prezioso. Oggi, adesso, come fosse il primo e l’ultimo momento della nostra vita. Poi domani, vedremo».

 


Maria Luisa con la sua medaglia a New York

 

A ognuno la sua maratona, a tutti i suoi frutti

Tutto d’un fiato, come in una maratona delle parole, Merilù ci ha portati, con lei, dentro una maratona. Anche noi che magari camminiamo piano o non camminiamo affatto: «quel giorno – ricorda ancora – ho visto una ragazza senza capelli correre con una maglietta che indicava un cancro sconfitto. Un bel ragazzo alto due metri con una protesi alla gamba. Ragazzi in carrozzina che sputavano sangue per superare il ponte di Queensboro, un gigante d’acciaio durissimo da correre. Ci sarà un motivo se ho chiamato “se vuoi puoi” l’associazione dilettantistica sportiva che ho voluto voluto costruire con i miei compagni di viaggio, sopra menzionati,  per dare una possibilità concreta a tutte le persone che hanno la sclerosi multipla e vogliono cimentarsi con la corsa. E poi con le nostre corse, eventi, iniziative raccogliamo fondi che, negli anni, abbiamo donato all’AISM di Brescia, all’AISM di Como e alla ricerca promossa da AISM con la sua Fondazione FISM. Quell’opportunità di vivere oltre la SM che è per noi, deve essere per tanti, per tutti».

 

 

 

I sintomi invisibili si fanno sentire, fanno parte del viaggio

Correre, andare a una maratona a dirla tutta, non è sempre come camminare leggeri su un tappeto di rose: «Io – confida Merilù- soffro tantissimo per quel sintomo invisibile che è la fatica, a volte diventa un Everest. In corsa ho spesso problemi urinari, a New York – la seconda volta che ci sono andata – ho corso 30 chilometri con problemi intestinali. Poi almeno nella parte sinistra del corpo ho poca sensibilità: quando corro per tanti chilometri anche il piede sinistro va un po’ per i fatti suoi. Ma arrivare sotto il gonfiabile del traguardo e prendere la medaglia di partecipazione è troppo importante. Se mi sento stanca – ora che ho appena compiuto 52 anni e 15 di diagnosi e di vita con Sua Maestà la SM -, rallento, mi fermo un po’ a camminare, poi riprendo. Non importa se arrivo centesima o millesima: la competizione è con me stessa, ogni volta ho un paletto da superare, e lo supero.. Io vinco ogni volta che passo sotto il gonfiabile e prendo la medaglia. Ne ho una collezione!».

 

 

 

Sua Maestà: se la SM è come la ‘regina delle corse’

Per non disperdere un’esperienza incredibile, a ben pensare, Merilù ha messo la sua vita in un libro, “Sua Maestà” (Marco Serra Tarantola Editore).

E la sua storia regala messaggi forti e chiari, a tutti, con e senza SM.

Il primo è che basta fare un passo, il primo passo – a piedi, con il bastone o muovendo una carrozzina - , come Merilù ha voluto dire con una delle ultime citazioni del suo libro: « Fate un passo. E poi un altro: dovete sempre fare solo un passo. Chiunque non faccia un singolo passo,  non arriverà mai da nessuna parte.Chiunque vada avanti facendo un passo alla volta percorre distanze infinite».

 

Il secondo è che lo sport fa bene, anche per chi ha la sclerosi multipla: «all’inizio mi avevano detto di andarci cauta, e io me ne stavo ferma e non facevo niente. Oggi lo consigliano anche per noi che abbiamo la SM: insieme alle terapie farmacologiche è un potente strumento per stare bene. Io, da diversi anni, non ho ricadute: incrocio le dita, ma è così. Corro, mi curo e sto bene»

 

 

Non è mai troppo tardi

E non è mai irreversibile quello che stiamo vivendo, anche se la sclerosi multipla non passa, non passa mai, possiamo andare oltre: «quando ho ricevuto la diagnosi, 15 anni fa, sono entrata in un tunnel in cui sono rimasta per anni  - ricorda Merilù. I miei genitori non accettavano la mia condizione. Il mio fidanzato di allora mi disse che era dispiaciuto … di non poter avere un figlio con me, perché avrebbe rischiato di prendere anche lui la sclerosi multipla. In quegli anni, il valore che mi attribuivo era di molto sotto lo zero. Avevo iniziato realmente a chiedermi cosa ci stavo a fare al mondo. Sono entrata in un buco nero. Mi sembrava di sprofondare sempre di più: ero io che non conoscevo cosa era la SM, ne sentivo parlare ma non mi ero mai fermata a capire che tipo di patologia fosse e cosa potesse portare. E poi mi sembrava di non avere più un futuro, solo sapevo che tutto era incerto. Quando sono andata dal neurologo gli ho chiesto tre cose, dopo che mi ha detto che la SM è una malattia neurodegenerativa che potrebbe anche portare a dover usare la sedia a rotelle per muoversi: se potevo ancora mettere i tacchi, se potevo andare a vedere ancora il Milan allo stadio e quanto la mia vita sarebbe cambiata. Mi ha detto che non poteva rispondere con certezza, questa è una malattia in movimento».

 

Movimento è la parola chiave per riprendere il filo di una vita oltre la SM.

Se comunque Sua Maestà si muove sempre, se non se ne sta mai ferma con le mani in mano, perché non possiamo decidere di muoverci anche noi, perché non decidiamo noi la direzione, invece che lasciarcela imporre? E poi, se non ci riusciamo da soli, provvidenziali possono essere gli incontri, gli amici, le amiche.

«A un certo punto la mia amica Simona decise che doveva farmi alzare da quel mio divano di dolore immobile: mi presentò il suo personal trainer, Leonardo, un bel ragazzo alto quasi due metri. Feci resistenza, poi iniziai a fare qualche camminata con lui. Fino a quando un giorno mi disse: «anche se hai un equilibrio un po’ precario, sembri nata per correre. Quando corri cambi espressione, sorridi, sei una donna libera da ogni remora, da ogni limite». Iniziai a provarci; un chilometro, poi due, poi cinque. Con lui facemmo la prima gara di cinque chilometri, mano nella mano. Poi i chilometri aumentarono, allenamento dopo allenamento. fino a quando decisi di correre la mia prima "dieci chilometri", con mio fratello Massimiliano, che è un maratoneta, a Brescia nel 2014, otto anni dopo la diagnosi! Non è mai troppo tardi. Dopo quell’esperienza durissima e adrenalinica, mi chiamò il dottor Gabriele Rosa, mister maratona. Lui è l’allenatore dei campioni, anche dei keniani che fanno i record del mondo, ma si occupa anche di cause sociali, per rendere realtà il valore dell’inclusione. Mi ha chiesto se a novembre 2016 mi andava di andare a fare la maratona di New York. E oggi siamo qui: abbiamo corso 11 maratone, siamo andati due volte a New York e una a Reykjavìk, in Islanda, poi Brescia, Milano, Reggio Emilia, Valencia».

 


La squadra di " Se vuoi puoi", ieri ...

 

Insieme, per un’esperienza “insuperabile”

Merilù dice “siamo” per via di quella squadra di persone che la SM la vogliono vivere e non subire. Una squadra, “ Se vuoi puoi”, nata per andare alla prima maratona di New York: li troviamo sul loro sito, se vogliamo conoscere anche loro.

Oppure, per vederci di persona – oltre la lontananza imposta dalla pandemia – Maria Luisa Garatti ci dà appuntamento per quest’estate: «Dal 14 agosto al 12 settembre siamo tutti invitati, anche per pochi giorni, alla “staffetta dell’inclusione”, un’iniziativa che coinvolge diverse associazioni e si chiama “Insuperabile”. Percorreremo, a piedi o in bicicletta, oltre mille chilometri della via francigena, partendo dal Gran Sasso per arrivare a Roma, dove contiamo di incontrare il Papa. Non è necessario fare tutte le tappe: sarà una staffetta, ognuno può partecipare per un pezzettino. Noi di “Se vuoi puoi” parteciperemo la prima settimana, dal 14 al 19 agosto: sarebbe bello essere in tanti compagni di viaggio con la SM, volontari, amici, chiunque abbia un po’ di coraggio e voglia di camminare.

 


"Se vuoi puoi" ... oggi

Io percorrerò tutta la via Francigena quasi 1000 km, per portare un messaggio di speranza per chi ha la SM, per far conoscere la malattia. E ci metterò le mie gambe soprattutto per chi non può camminare. Lo scorso anno ho percorso 300 km in 12 giorni   ed è stata un’esperienza splendida e difficile – perché nessuna meta è senza fatica -: un giorno ho camminato sotto un sole da 35 gradi, un giorno sotto il diluvio. Ma mentre camminavo ho incontrato nuovamente me stessa, la mia anima, le dimensioni più profonde e nascoste di me, e mi sono innamorata un’altra volta di questa vita. Per arrivare bisogna partire. La voglia di vivere non ammette scuse. Bisogna partire, non c’è verso».