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19/10/2011

Migliorare le forme progressive di SM: l'intervista a Roberto Furlan

 Roberto Furlan
Nella foto: Roberto Furlan

 

Roberto Furlan è responsabile dell'unità di Neuroimmunologia Clinica dell’Istituto di Neurologia Sperimentale, Divisione di Neuroscienze presso l'Istituto Sicentifico San Raffaele di Milano, nonché membro del Comitato scientifico FISM (Fondazione Italiana Sclerosi Multipla). In occasione dell'ECTRIMS - European Commitee for Treatment and Research in Multiple Sclerosis, uno dei congressi più importanti per ciò che riguarda la SM - presenta lo studio Microglial microvesicles in multiple sclerosis, clinical isolated syndrome and other neuroinflammatory diseases: a role in disease state characterisation D. Dalla Libera, A. Bergami, L. Garzetti, V. Martinelli, G. Martino, G. Comi, C. Verderio, R. Furlan (Milan, IT) - che potrebbe essere importante per comprendere e combattere la forme progressive di sclerosi multipla.

 

 

Può spiegarci brevemente di cosa si occupa l’ambito di ricerca dello studio che presenta all’ECTRIMS e qual è il nuovo contributo che porta?
«Una ricercatrice del mio gruppo, Dacia Dalla Libera, porta la descrizione di un marcatore di attivazione microgliale, che pensiamo possa essere particolarmente importante nelle forme progressive (di sclerosi multipla ndr). Anzitutto come marcatore, ma speriamo di poter dimostrare che ha un ruolo patogenetico, cioè che agisce nella generazione della malattia, e che può essere assunto come bersaglio di una eventuale terapia. La microglia è la cellula immunitaria che agisce come prima linea di difesa nel cervello. Nel variegato e multiforme arcipelago delle cellule che fanno parte del sistema immunitario, ogni tessuto ha le proprie cellule immunitarie, che non sono quelle che arrivano come invasori da fuori, ma che stanno residenti a fare un po’ di sorveglianza. E la microglia è il complesso delle cellule immunitarie del cervello».

 

E nella microglia avete trovato un biomarcatore collegabile alle forme progressive?
«Sì, abbiamo trovato un marcatore, utilizzando il liquor di pazienti che hanno accettato di sottoporsi a puntura lombare. In realtà è un pacchetto di biomarcatori. Attualmente alla microglia si riconoscono molti ‘ruoli cattivi’, principalmente quello di propagare una forma di infiammazione nelle forme progressive, che infatti non rispondono alle terapie. Noi, in collaborazione con Claudia Verderio del CNR di Milano, abbiamo scoperto che questa microglia rilascia nel liquor alcune vescicolette che contengono tanti segnali importanti».

 

E cosa fanno questi segnali?
«La nostra idea è che in sclerosi multipla propaghino segnali di infiammazione. Poiché già ci sono farmaci che funzionano nel bloccare queste vescicolette, è possibile che funzionino anche rispetto alle fasi progressive. Questo, ovviamente, se e solo se si dimostrerà che la microglia è tanto importante nella fase progressiva: è sempre importante, in scienza, coltivare lo scetticismo come virtù e non lasciarsi mai andare a facili proclami. Con molta prudenza, dunque, stiamo esplorando questa possibilità».

 

Come possono essere contrastati questi segnali infiammatori che avete intercettato?
«Tra i farmaci che agiscono su queste vescicolette c’è anche il fingolimod. In base agli studi sin qui effettuati è già chiaro che funziona in maniera ottimale nelle forme recidivanti remittenti, perché blocca i linfociti nelle loro stazioni. Ma all’inizio del 2011 un gruppo di biochimici ha descritto una sua azione bloccante nei confronti di un enzima che sapevamo essere fondamentale per il rilascio di queste vescicolette da noi individuate. Su questa base, abbiamo effettuato esperimenti sugli animali e abbiamo visto che in effetti il fingolimod blocca anche le vescicolette da noi individuate. Di qui l’ipotesi che possa essere attivo anche rispetto alle forme progressive».

 

Ci sono già studi sul fingolimod rispetto alle forme progressive?
«Sì, c’è un trial che sappiamo essere già in fase 3. Però gli studi sulle progressive sono diversi da quelli consueti sulle forme recidivanti-remittenti, dove basta sperimentare il farmaco per un anno, misurarne gli effetti sulla disabilità in base alla scala EDSS e osservare con la risonanza magnetica l’eventuale cambiamento prodotto rispetto alle lesioni. Nelle forme progressive dove non si hanno quasi mai lesioni attive e dove la clinica non avanza tumultuosamente, bisogna effettuare studi più lunghi. Chi decide di aprire trial sulle forme progressive, deve mettere in campo studi che durano 4-5 anni. Non avendo lesioni attive su cui misurare l’effetto del farmaco, bisogna studiare eventuali modifiche prodotte dal farmaco rispetto ad altri parametri, come ad esempio l’atrofia, l’atrofia regionale, l’atrofia corticale. E rispetto a questi parametri i cambiamenti osservabili nel singolo anno non sono mai così evidenti e radicali da poter essere ritenuti statisticamente significativi. Ë sicuramente un percorso complesso».

 

La ricerca inizia in laboratorio e arriva a migliorare la vita delle persone: nel caso della vostra ricerca di base, la via verso le persone potrebbe essere l’apertura o la conferma di una via terapeutica per le forme progressive?
«Senza vendere in alcun modo illusioni facili, che non hanno evidenza, il nostro tentativo è quello di individuare uno dei tanti meccanismi che siano ancora attivi nelle fasi progressive e quindi suggerire nuove sperimentazioni a chi già dispone di farmaci che possono agire su questi meccanismi. Per il Fingolimod stanno già sperimentando: si può pensare che per il 2014 ci siano risultati nelle progressive. Ma altre case farmaceutiche, che utilizzano composti simili, potrebbero essere stimolate a sperimentare con una ragione in più nel campo delle progressive».

 

Sarebbe un salto di qualità notevole
«Ora per le forme RR abbiamo a disposizione un armamentario terapeutico di farmaci che funzionano bene. Invece siamo ancora impotenti di fronte a pazienti con forme primariamente o secondariamente progressive. Non a caso Fastforward* – il progetto di ricerca preclinica finanziato da diverse Associazioni SM nel mondo, tra cui AISM - è incentrata sulle progressive. E anche le case farmaceutiche stanno concentrando aspetti importanti delle proprie ricerche per queste forme, con la speranza di poter sperimentare un farmaco già approvato per le forme remittenti e individuare una sua possibile efficacia anche per le forme progressive. Questo abbasserebbe i costi e i tempi per avere farmaci utili per curare le forme progressive».

 

Perché si deve investire anche su farmaci sulle progressive?
«Perché ogni persona conta. Inoltre, se le primariamente progressive sono il 20% del totale, significa che in Italia su circa 63.000 persone con SM ce ne sono 12.000 che non hanno una cura idonea».

 

Guardando allo stato globale della ricerca, le persone devono dunque aspettarsi soprattutto un incremento della ricerca per la comprensione e la cura delle forme progressive di SM?
«Sia dal punto di vista della scienza di base che della ricerca industriale c’è molta attenzione per le forme progressive. Anche perché si ritiene che se si individuano sostanze che funzionano nella SM in fase cronica neurodegenerativa poi possano essere utilizzabili in tutte le forme di neuro degenerazione dove sono presenti componenti infiammatorie (ad esempio Alzheimer, SLA). Insomma quello sulla SM progressiva, sarebbe un lavoro pionieristico che potrebbe aprirsi verso altre frontiere. Al momento, però, mi sembra che siano molto deboli le evidenze per giustificare l’ipotesi che i meccanismi alla base del danno nelle forme progressive di SM siano simili a quelli di Alzheimer e SLA. Si potrebbe anche arrivare a dimostrare che una sostanza che funziona nelle forme progressive di SM non funziona per niente nelle forme di Alzheimer e SLA. Potrebbe essere interessante comunque coltivare i campi di sovrapposizione, perché qualche meccanismo comune è probabile ci sia. Proprio l’attivazione microgliale testimoniata dalle vescicolette che abbiamo individuato è uno di questi campi che è interessante sia nella SM che nell’Alzheimer. Dunque in questo caso specifico interferire con queste vescicolette potrebbe fare bene all’una e all’altra malattia. Va detto con molta cautela e umiltà: potrebbe essere vero anche il contrario, ossia che nell’Alzheimer queste vescicolette siano protettive e non producano progressione della malattia, e dunque che non vadano in alcun modo inibite. La ricerca è sempre un’attività a rischio: si parte da un’ipotesi – e non dal suo opposto – e la si va a verificare».

 

Parla di vescicolette. Potrebbe trovare un’ altra immagine sintetica per rappresentare il vostro contributo?
«Possiamo parlare di vescicolette, ma anche di palline, o di bolle di sapone, o di pacchettini. Sono come un messaggio nella bottiglia del naufrago che è la cellula. Anzi, qui ci sono dieci o venti bigliettini nella bottiglia. La cellula li lancia e si aspetta che la vicina li raccolga. Ë un pacchetto di messaggi che la microglia lancia. Nel caso della SM e dell’infiammazione riteniamo che questi siano messaggi negativi, di amplificazione dell’infiammazione. E quindi questi bigliettini nella bottiglia funzionano sia da marcatori, perché possiamo intercettarli e leggerli, sia da bersaglio terapeutico: se li blocchiamo miglioriamo la malattia».

 

frecciaGuarda la videointervista di Roberto Furlan in occasione dell'ultimo Congresso FISM (maggio 2011)

 

* È stato recentemente creato, a livello internazionale, un progetto innovativo che si chiama «Fastforward», ovvero "avanti veloce", nato nell’USA nell’ambito della National Multiple Sclerosis Society. Questa sinergia tra diverse associazioni nazionali di SM nel mondo serve per colmare la distanza tra ricerca di base, effettuata in laboratorio, e ricerca clinica, fornendo finanziamenti che permettano di accelerare i processi di valutazione pre-clinica dei potenziali trattamenti farmacologici per le persone con SM.