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18/12/2013

Sclerosi multipla: la plasticità sinaptica e il recupero dopo una ricaduta. Intervista a Diego Centonze

Due studi finanziati da AISM e la sua fondazione analizzano il ruolo di questo meccanismo nel contrastare il danno neurologico. L’intervista al coordinatore Professor Diego Centonze

La plasticità sinaptica ha un ruolo importante nei meccanismi di recupero del danno clinico dopo una ricaduta nella sclerosi multipla recidivante-remittente. È quanto emerge dai risultati di due studi condotti dal dottor Mori e coordinati dal professor Centonze dell’Università Tor Vergata di Roma, finanziati da AISM e la sua fondazione FISM, recentemente pubblicati su importanti riviste scientifiche come Multiple Sclerosis Journal e The Journal of Neuroscience. Per approfondire l’argomento di queste ricerche, abbiamo intervistato il Professor Diego Centonze.

 

Ci aiuta a capire cosa avete messo in evidenza in questi studi?
«Partiamo dal primo lavoro (Cortical plasticity predicts recovery from relapse in multiple sclerosis): fa vedere come il recupero da una ricaduta clinica vada messo in relazione con la capacità plastica che ha la corteccia cerebrale. Vuol dire che un danno della sostanza bianca, che fa riscontrare in risonanza magnetica le lesioni attive captanti gadolinio e genera i sintomi clinici della ricaduta, viene compensato da meccanismi di plasticità sinaptica nella corteccia».

 

Quale novità porta questa scoperta?
«Le conclusioni cui giungiamo spostano un poco l’idea classica che la compensazione sia dovuta a meccanismi di riparazione posti in atto all’interno della lesione demielinizzata, ossia che i pazienti con SM a ricadute e remissioni (SM-RR) recuperino da una ricaduta perché all’interno della lesione si attenua l’infiammazione o si mettono in atto meccanismi in base ai quali gli assoni demielinizzati si riorganizzano per funzionare meglio. Noi, senza escludere questo, facciamo vedere che almeno in parte il recupero da una ricaduta passa da un fenomeno di plasticità sinaptica che si chiama Long-term Potentiation (LTP) e avviene nella corteccia cerebrale».

 

In pratica, come avete svolto la ricerca?
«Abbiamo utilizzato la stimolazione magnetica transcranica (TMS) per stimolare e indurre quel fenomeno di plasticità corticale che postuliamo avvenga normalmente in seguito al danno cerebrale per cercare di ridurne gli effetti clinici. In questo modo abbiamo potuto osservare come la corteccia cerebrale risponde e quale tipo di riserva di plasticità sia presente in quel momento. E abbiamo valutato come le persone con SM-RR che hanno migliore plasticità nella corteccia ottengono anche un miglior recupero clinico quando passano dal momento di ricaduta al momento di remissione».

 

Passiamo al secondo studio, pubblicato sul Journal of Neuroscience.
«Quest’altro studio, sempre finanziato da AISM e la sua fondazione, mostra come lo stesso meccanismo di plasticità sinaptica presentato nello studio sulla SM-RR distingua le forme a ricadute e remissioni da quelle primariamente progressive (SM-PP). Qui mostriamo che i pazienti con forma progressiva di SM non hanno più plasticità corticale».

 

Come si connettono i risultati dei due studi?
«I pazienti con forma a ricadute e remissioni (SMRR) hanno ancora plasticità e, anzi, mostrano meccanismi di plasticità più efficaci proprio perché devono compensare il danno che c’è nella malattia. Quelli con maggiore plasticità, dicevamo nel primo studio, sono quelli che compensano meglio il danno che si produce nel momento della ricaduta. Il secondo studio dimostra che quando questo meccanismo si esaurisce inizia ad essere osservabile la forma progressiva. I due lavori sono dunque collegati: entrambi mostrano che la plasticità corticale è importante nel compenso delle ricadute ed efficace per rendere stabile la malattia ed averne un andamento con minori sintomi».

 

Per quali motivi una persona denota una minore o maggiore plasticità corticale rispetto ad altri?
«I fattori che intervengono sull’efficacia dei meccanismi di plasticità sono diversi. Per esempio conta l’età. Oppure il danno è talmente esteso che finisce per esaurire la riserva di plasticità di una persona. Nel secondo studio, inoltre, abbiamo mostrato come un fattore di neurotrasmissione presente nel liquor cerebro-spinale, la citochina chiamata fattore di crescita derivato dalle piastrine (PDGF, Platelet-Derived GrowthFactor) giochi un ruolo fondamentale nel favorire sia il meccanismo di plasticità corticale della Long Term Potentiation (LTP) che la riserva cerebrale nella SM. Questa sostanza, il cui dosaggio nel liquor è stato possibile grazie al contributo del Dr Furlan e del Dr Martino dell’Ospedale San Raffaele a Milano, è scarsamente presente nella persona con una forma primariamente progressiva di malattia».

 

Queste osservazioni possono aiutare ad effettuare previsioni sull’andamento di malattia nei singoli casi?
«Se assumiamo che il cervello con buone possibilità plastiche recupera meglio, allora possiamo identificare precocemente, con osservazioni del tipo da noi utilizzato, quali sono i pazienti che recupereranno meglio da una ricaduta, quelli che rischiano di avere un minor recupero o di evolvere a una forma progressiva».

 

Come si va avanti nella ricerca rispetto a queste evidenze?
«Bisogna confermare queste ipotesi in studi più grandi. Inoltre occorre studiare se lo stesso fenomeno sia osservabile anche nelle forme secondariamente progressive o in altre malattie neurologiche. Dove c’è un danno cerebrale si attivano sempre meccanismi di plasticità».

 

E cosa possono comportare le vostre osservazioni per la cura della malattia?
«I meccanismi di plasticità da noi individuati sono gli stessi che, secondo diverse ricerche, vengono salvaguardati, stimolati e potenziati tramite la riabilitazione. Attraverso l’esperienza riabilitativa si è in grado di modificare l’espressione dei geni coinvolti nella plasticità sinaptica, quali ad esempio il fattore neurotrofico di derivazione cerebrale (BDNF). Dunque, si sta compiendo un grosso salto, concettuale e pratico, nella cura della SM: procedure non farmacologiche come quelle riabilitative si stanno accreditando come trattamenti in grado di agire profondamente sulle molecole e sui meccanismi che governano il recupero clinico».

 

Vorrebbe dire che si può intervenire anche per rallentare la progressione della malattia?
«Sì, assolutamente. La riabilitazione, proprio perché garantisce e favorisce la plasticità, può avere un’azione “disease modifying”, cioè funzionare come un vero e proprio intervento farmacologico e neuroprotettivo sull’andamento di malattia, non solo perché favorisce il recupero ma proprio per prevenire il peggioramento e l’evoluzione verso forme progressive».