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31/05/2023

Intelligenza artificiale generativa e sclerosi multipla: un incontro virtuoso dal forte impatto

Ivano Eberini, ricercatore e Professore associato di Biochimica all'Università degli Studi di Milano, si è fermaco con noi a guardaere i "ritratti" delle persone con SM generati tramite l'intelliegenza artificiale,in mostra a Roma- Piazza San Silvestro e Milano- Via Dante, da oggi al 6 giugno, visibili anche qui (link al sito www.portraitsaism.it): «L’intelligenza artificiale – dice -ci aiuta a vedere l’invisibile, non a sostituire la persona, la sua intelligenza, la nostra necessaria relazione. Mettiamoci nei loro panni. E se vogliamo scappare via, dopo aver guardato l’invisibile, vuol dire che ci siamo riusciti e che questi “ritratti” sono stati efficaci»

 

Bentrovato, dottor Eberini: ha visto le immagini della Mostra "Portraits"? Che effetti le ha fatto?
"Mi è piaciuta tanto. Prima di tutto per la scelta di affrontare la questione dei sintomi invisibili, che per la SM è una questione nodale, critica, decisiva, difficile da comunicare. Al di là di tutto ciò che è visibile, le persone con SM spesso vivono con sintomi invisibili che rendono la loro vita pesante, faticosa, poco compatibile a volte con le attività quotidiane e fanno grande fatica a comunicare questo disagio e a ottenere soluzioni e/o suggerimenti utili a controllarlo".


Che ne pensa della scelta di usare l’intelligenza artificiale (AI)?
"Si vede un uso riuscito dell’intelligenza artificiale generativa. Un uso virtuoso che riesce a rappresentare in modo efficace quello che le persone con SM raccontano".

 

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Portraits teaser mobile

 

Come si ottiene un’integrazione virtuosa tra intelligenza artificiale e intelligenza naturale che non cancelli l’uomo, non generi conflitti e paure ma dia supporto a individuare quello che ‘a occhio umano’ non si riesce a vedere?
Il termine intelligenza artificiale (AI) ci porta d’istinto a fare un confronto con l’intelligenza umana. Sarebbe un errore pensare che l’AI possa sostituire l’intelligenza e le capacità dell’uomo, si tratta più di un’integrazione o un supporto per specifiche attività. A oggi non è pensabile che l’intelligenza artificiale si possa sostituire all’intelligenza umana.


Perché?
Parliamo di algoritmi, di istruzioni e calcoli che “imparano” dai dati che forniamo al sistema o che vengono generati da altri sistemi. Se i dati che inseriamo contengono “bias” (pregiudizi e/o distorsioni), errori, se sono una rappresentazione parziale di un fenomeno o di un evento, se non rappresentano adeguatamente la realtà che dovrebbero descrivere, gli algoritmi dell’intelligenza artificiale imparano e finiscono per tener conto anche di questi “bias”, come si dice nel linguaggio scientifico. Insomma, serve grande attenzione al tipo di informazione, al dato che si fornisce all’intelligenza artificiale nella fase di addestramento. Serve vigilanza, controllo dell’esito e senso di responsabilità.

 

Dunque con l’AI ci troviamo dentro una questione anche etica?
Sì. Serve trasparenza su cosa fanno effettivamente gli algoritmi di AI e serve trasparenza sul tipo di dati e informazioni che vengono fornite per fare “imparare” alla macchina quello che le serve per elaborare la sua risposta.

 

Ma nel caso di Portraits non stiamo parlando di dati numerici, ma dell’elaborazione di fotografie in base a frasi dette dalle persone
Infatti, bisogna distinguere bene tra l’AI che ha funzione classificatoria – quella che usiamo anche nel mio gruppo di ricerca – rispetto a quella che ha una funzione generativa. I sistemi di AI classificatoria, per quel che mi riguarda, ci aiutano, in tempi rapidi, ad esempio a generare modelli tridimensionali della struttura di proteine di cui non si è ancora ottenuta sperimentalmente la reale struttura. Però è fondamentale analizzare questi modelli in modo estremamente critico: alcuni risultano più accurati, altri decisamente meno.


Cosa succede quando si va al di là di questa funzione classificatoria?
Stanno prendendo piede intelligenze artificiali che non hanno solo funzione classificatoria, ma sono generative. Se guardiamo per esempio quella chiamata “CHAT GPT”, abbiamo un’interfaccia cui facciamo una domanda e per la quale l’AI fornisce una risposta. Spesso quella risposta è formalmente ineccepibile dal punto di vista della sintassi e della grammatica, ma personalmente farei sempre molta attenzione a verificare l’accuratezza e l’affidabilità del contenuto effettivo.

 

Ivano Eberini - Congresso Giovani AISM
Il dottor Ivano Eberini

 

Intelligenza vuol dire “leggere dentro”: cosa leggiamo, in poche parole, dentro l’AI?
Nonostante abbia messo in evidenza diverse criticità, non ho una percezione negativa dei sistemi basati su AI. Se ben usati, possono aiutarci a migliorare la nostra vita. In medicina, ad esempio, possono aiutare nella diagnostica o orientare nella scelta terapeutica. Ma restano valide tutte le cautele di cui abbiamo parlato prima e a cui dobbiamo sempre prestare molta attenzione.

 

Che usi dell’AI, come ricercatori, sono oggi possibili nella ricerca sulla SM?
L’AI può aiutarci a mettere insieme tanti dati che possono anche arrivare da approcci tra loro diversi, clinici, sperimentali, genetici e così via. Tra le numerose possibilità, può fornire un supporto nel “pesare” in modo corretto le diverse evidenze e consentire di arrivare a decisioni più integrate. e consapevoli sia in ricerca sia in clinica. In un futuro, ad esempio, possiamo immaginare la possibilità di avere diagnosi più accurate o di selezionare in modo estremamente personalizzato la terapia più adatta. Ricordiamoci però che la fase di educazione dell’intelligenza artificiale è fondamentale: più i dati forniti saranno di buona qualità, meno errori saranno presenti, più numerosi saranno i dati utilizzati e migliori saranno le prestazioni dell’algoritmo nell’aiutarci a fare predizioni accurate per quanto riguarda la ricerca, la diagnosi e anche la terapia.

 

Che altro nome daresti all’intelligenza artificiale, se volessi trovare una parola meno fraintendibile?
L’AI comprende diversi metodi tutti basati su algoritmi, dunque su una serie di procedure di calcolo per risolvere un problema complesso. Tendenzialmente la parola “algoritmo” renderebbe conto del “cosa” è contenuto in ogni sistema di intelligenza artificiale; ma il termine algoritmo è davvero troppo generico, perché esistono moltissimi algoritmi che non fanno riferimento in alcun modo a sistemi di intelligenza artificiale. Dunque, teniamoci il nome di “intelligenza artificiale”, come ci teniamo anche per alcune specifiche applicazioni dell’AI quello di “reti neurali artificiali”. Ma dobbiamo sempre essere consapevoli che, in questo momento, non sono da intendersi come competitor o possibili sostituti dell’intelligenza umana, ma come supporto e integrazione ad alcuni specifici compiti. Sono pur sempre sistemi che aiutano nella classificazione, nei processi decisionali e, come in Portraits, nella generazione di contenuti che però non sostituiscono le infinite possibilità creative e le relazione umane.


Ecco, torniamo alla prima domanda, alle persone reali: nel nostro caso l’intelligenza artificiale ha restituito immagini che possono essere scioccanti e avere un effetto allontanante. Dopo averli visti, non ne è rimasto turbato fino a scapparne via, magari pensando: “mamma mia, meno male che non ho io la SM, pensateci voi, io vado a guardare un tramonto sul mare”?

No, decisamente non ho pensato questo. Non voglio negare che quelle immagini per qualcuno possano anche essere scioccanti, ma ciò che vediamo in Portraits è esattamente quello che le persone che si sono raccontate vogliono che si veda. Le persone nei ritratti sembrano volerci dire: “io sto male e tu sembri non vederlo”. Io non posso capire davvero, perché non ho la SM, ma mi sforzo molto di empatizzare con chi vive questa condizione. Non scappo, neanche dopo le immagini di Portraits. Anzi, da questo lavoro ho capito con più forza che noi, da fuori, tendiamo a sottovalutare tutta una serie di disagi e sintomi invisibili e alle volte a comportarci come se non volessimo capire. Invece spesso le persone con SM ci dicono che non riescono a reggerei un ritmo che è estenuante anche per chi non ha la SM. Il motivo del loro disagio e dell’impatto che i sintomi invisibili hanno sulla qualità della vita è lì, in quelle metafore visive: sento le gambe che bruciano, sento come se avessi migliaia di spilli a tormentarmi, ma noi non vediamo. Quelle immagini vogliono farci capire che c’è anche dell’altro oltre ai sintomi visibili, che i sintomi invisibili possono contribuire a rendere le giornate faticose, che c’è qualcosa che rende ancor più complicata la loro vita.

 

Cosa ci vede, allora, lei, in queste immagini?
Vedo con grande forza quello che la persona percepisce dall’interno. Colpisce diritto alla pancia. Se poi, vedendola, qualcuno prova una sensazione di smarrimento, come mi chiedevi poco sopra, probabilmente questo è esattamente ciò che le persone con SM vorrebbero comunicarci: «A te sembra che io non abbia nulla, ma in realtà sto così, tienine conto».


È un messaggio anche per un ricercatore come lei e per i medici che prendono in carico le persone?
Mi capita di ascoltare persone con SM dire: “il mio neurologo guarda gli esami strumentali, fa delle misure che per lui sono obiettive, va a guardare cose che per lui indicano o meno la progressione di malattia, ma che spesso per me non sono realmente quelle che impattano più pesantemente sulla mia qualità di vita. Io esperimento anche altri sintomi che vengono poco considerati e che invece mi complicano maledettamente la vita”. Queste immagini sono preziose perché aumentano la consapevolezza di tutti noi che da fuori non vediamo l’impatto di quei sintomi. Non bisogna mai distrarsi dal costante impegno per avere una valutazione oggettiva dello stato della malattia, ma raccontiamo anche ai medici e agli esperti tutte quelle esperienze invisibili, che sanno diventare padrone di intere giornate della vita di una persona con SM.

 


Chi è e cosa fa Ivano Eberini

Nato nel 1971, laureato in Chimica e Tecnologia Farmaceutiche, con dottorato in Biotecnologie Applicate alla Farmacologia e alla Tossicologia e specializzazione in Farmacologia, Ivano Eberini è professore associato di Biochimica all’Università degli Studi di Milano. Ha partecipato e coordinato diversi progetti di ricerca supportati da FISM, in particolare quelli sul recettore GPR17 e sulla ricerca di nuove molecole per promuovere il differenziamento degli oligodendrociti e la riparazione del danno alla mielina nella SM.

 

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