Salta al contenuto principale

28/05/2012

Sara Morganti: «vincere è fare meglio, non battere gli altri»

 

La campionessa di dressage parteciperà a Londra 2012 con la squadra paralimpica azzurra. Un sogno realizzato oltre la SM. L'abbiamo intervistata in occasione della Settimana Nazionale della SM

 

Sara ha sempre avuto una passione - l’equitazione - e un sogno, partecipare alle Olimpiadi. Si è preparata tanto, maSara Morganti per un attimo ha temuto di non poter neanche provare a realizzarlo questo sogno. Dopo aver iniziato la carriera ippica, a 19 anni, arriva la diagnosi di sclerosi multipla. Tutte le certezze crollano in un attimo, niente è più sicuro, vien voglia di mollare tutto. Ma è rimasta in sella, con tenacia, e alla fine Sara Morganti, classe 1976, nata a Castelnuovo Garfagnana, sarà a Londra 2012, una delle atlete di punta della nazionale paralimpica italiana.

Nella tredicesima edizione della Settimana Nazionale della Sclerosi Multipla, uno spazio importante è dedicato allo sport come partecipazione, inclusione sociale, solidarietà. Per questo abbiamo incontrato Sara e ci siamo fatti raccontare la sua bella storia di sport e di vita.  

 

Come ti è arrivata la diagnosi?
«
Intorno ai 19 anni ho avuto una diplopia. Dopo un mese, periodo in cui i medici capivano molto poco di quanto mi stesse accadendo, ho fatto la Risonanza Magnetica. Mentre attendevo il risultato pensavo che si trattasse di un tumore al cervello. Ero talmente spaventata che per alcuni giorni non ho voluto sapere l’esito dell’esame. Quando mi sono sentita più in grado di sopportare il risultato, qualsiasi esso fosse, mi hanno comunicato la diagnosi di sclerosi multipla».

 

Come hai reagito?
«Per più di due anni non ne ho parlato con nessuno, mi sono sentita preda di un vortice che stava cancellando lentamente la mia vita. Pensavo che tutti i miei sogni, tra cui quello di partecipare alle Olimpiadi, si sarebbero sbriciolati. È stato per questo carico di profonda disperazione che decisi di abbandonare quanto più mi rendeva felice: l’equitazione. Saltare gli ostacoli era diventato impensabile, la gestione del cavallo troppo faticosa, sono arrivata a non frequentare più l’ambiente, di lasciar perdere tutto. Nel 1997 i sintomi sono peggiorati, ho avuto un vero e proprio tracollo fisico mentre svolgevo un percorso riabilitativo. Ecco, in quel preciso istante, ho pensato che se fossi finita su una sedia a rotelle non avrei più desiderato vivere». 

 

Come ti sei tirata fuori da quel momento?
«Ero così presa da quanto mi stava accadendo, che non mi ero accorta del cerchio d’amore che si stava creando intorno a me, composto dalle persone della mia famiglia e da quello che sarebbe diventato mio marito. Per cui – paradossalmente - in un momento così triste ho ritrovato le forze che mi avevano abbandonato e ho scoperto che si può far tutto, tralasciando il sintomo della fatica e i problemi motori. Un aspetto eccezionale delle persone della mia famiglia è il loro straordinario equilibrio nella preoccupazione. Mia madre ad esempio, mi ha sempre sostenuta ma ha anche saputo guardarmi da lontano, senza proteggermi troppo, lasciandomi vivere le mie esperienze. Stefano, mio marito, mi è sempre stato vicino, siamo sposati da quattordici anni. La SM non mi ha fermata, e non parlo solo della mia attività agonistica. Ho preso la patente, continuo a lavorare part-time, sono a metà del percorso di studi della laurea specialistica in lingue e vorrei laurearmi subito dopo le Paralimpiadi di Londra 2012».

 

Sei una delle atlete di punta della nazionale paraolimpica,  Londra 2012 non è la tua prima esperienza internazionale: cosa è cambiato nel tuo allenamento approccio all'equitazione?
«La mia pratica sportiva è quotidiana, purtroppo quando mi capita di non poter fare esercizio per un giorno faccio molta più fatica a riprendere l’allenamento. Sono fortunata perché il mio cavallo (Royal Delight) ha un passo bellissimo, siamo in assoluta sintonia. Devo dire che non ho cambiato quasi nulla nel mio allenamento, sento solo un po’ più di tensione perché voglio presentarmi in forma e svolgere un’ottima performance per la Nazionale».

Quali indicazioni daresti ad una persona con SM che volesse provare a praticare uno sport equestre?
«Io sono seguita da un istruttore per “normodotati”, con il quale ho un dialogo continuo durante l’allenamento per avere suggerimenti su come modificare le mie abilità e quindi far compiere al cavallo quanto l’esercizio richiede. Una persona con SM può montare a cavallo, ma attualmente temo che non ci siano siano molti centri in cui gli istruttori vengono formati su questa patologia nello specifico: mi auguro che in futuro ci possa essere più attenzione alla formazione degli istruttori per consentire alle persone con SM di avvicinarsi con più tranquillità a questo sport. La federazione (FISE) si sta impegnando molto nella formazione dei tecnici federali, e anche a me piacerebbe diventare un giorno un tecnico paralimpico. Un progetto a cui tengo è incrementare la conoscenza da parte dei tecnici federali degli ausilii che possono essere ammessi in gara (es. briglie particolari per avere maggiore grip, elastici per mantenere il piede in posizione nella staffa). Non solo, l’equitazione - soprattutto quella non agonistica - non è uno sport elitario. Richiede uno sforzo economico nel momento in cui si decide di intraprendere una carriera agonistica, che significa acquistare e mantenere un cavallo e partecipare alle gare a livello internazionale».

 

Quanto praticare uno sport aiuta credere in sé stessi, prima ancora di essere persone con SM?
«Ci sono stati momenti della mia vita in cui mi sono sentita molto giù. Lo sport - penso valga per tutti - aiuta a credere in se stessi, a spostare l’attenzione dalla propria situazione personale a ciò che ci circonda. L’equitazione ti mette in relazione con il tuo cavallo, che diventa un prolungamento di te stesso, e non hai tempo di concentrarti su quello che non funziona di te, hai altro a cui pensare, come ad esempio restare in sella!».

 

Che cosa significa vincere?  
«Per me significa fare meglio di quanto ho fatto prima, non significa necessariamente fare meglio degli altri».