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07/09/2016

«Tirando al bersaglio della sclerosi multipla ho imparato a vincerla»

Nadia Fario, padovana, partecipa alle Paralimpiad di Rio nel tiro a segno specialità pistola P2 (10 metri) – P4 (50 metri) categoria SH1-C. Prima di partire ci ha raccontato la sua esperienza con la SM e l'incontro con AISM

 


In un’annata particolarmente felice per l’Italia nel tiro a segno olimpico, una campionessa con sclerosi multipla di tiro con la pistola, la padovana Nadia Fario, è appena partita per le Paralimpiadi di Rio 2016. Nadia ha 52 anni e partecipa alle gare di tiro a segno, specialità pistola P2 (10 metri) – P4 (50 metri) categoria SH1-C. Ha debuttato nel 2012 e gareggia per una delle società più attive nel mondo sportivo delle persone con disabilità, l’Aspea Padova. È alla sua prima Paralimpiade. L’abbiamo intervistata quasi sulla porta di casa, con la valigia già pronta, la sera prima di prendere l’aereo.

 

Perché una donna con SM inizia a sparare e come poi diventa campionessa, Nadia?
«Il tiro a segno è uno sport mentale più che fisico. Certo, proprio perché ho la sclerosi multipla, sento più di altri lo sforzo fisico, la stanchezza incide tanto. Ma la cosa più importante è la mente: prima che con gli altri devi combattere prima di tutto contro te stesso. Imparando a sparare a un bersaglio posto a 50 metri, sono riuscita a tirare fuori tutte le mie paure e i miei fantasmi a non nasconderli e, così, a calmarmi. Il bersaglio è come la diagnosi di SM: non la puoi nascondere, non puoi fare finta di non vederla, è là, aspetta te. E allora devi prendere tutte le tue paure e le tue angosce, ma anche la tua felicità e tutte le tue gioie e riuscire a gestire ogni emozione e a trasformarla in azione efficace, devi riuscire a centrare il bersaglio con calma e serenità». 

 

Sei stata la prima italiana a staccare il pass per Rio, arrivando terza ai mondiali dello scorso anno.
«Sì, ho vinto il bronzo, con orgoglio, in una gara in cui si spara con una mano a un bersaglio a cinquanta metri. Una gara mista, dove gareggiano sia uomini che donne, nella quale hanno sempre avuto la meglio gli uomini. Ma l’anno scorso sul podio ci siamo andate in due, io e una grande iraniana, che ha la poliomielite. Al primo posto un russo».

 

Tu sei in carrozzina quando spari?
«Deambulo utilizzando il bastone. Se però devo fare lunghi tratti, allora uso la carrozzina. In ogni caso non riesco a sparare in piedi, devo sparare da seduta, anche perché in una malattia come la mia la fatica incide tantissimo. Sparare dalla carrozzina è uno svantaggio rispetto a chi può sparare stando in piedi. Ma si vince anche da seduti!». 

 

Come fai a restare serena e concentrata in mezzo a tanto sparare?
«Ho un mio segreto: prima di ogni gara mi immagino di essere alle Tre cime di Lavaredo, il posto dove sono stata per la prima volta con il mio compagno. In quel momento racchiudo tutti i miei pensieri dentro una nuvola e li lascio andare via. Chi è stato lassù avrà stampata in mente quell’immagine meravigliosa, che dà calma, tranquillità e forza».

 

Tu e il tuo compagno come vi siete conosciuti?
«Ci siamo trovati tramite la pallacanestro. Io, dopo la diagnosi di SM nel 2009, probabilmente per non vedermi come ammalata, mi sono buttata nel volontariato e sono andata alla Millennium Basket, un’Associazione Sportiva Dilettantistica nata a Padova da un gruppo di amici con la passione per il basket in carrozzina. Ivano era lì: lui, che è paraplegico, era stato nazionale paralimpico di tiro a segno e anche di basket. Sapendo la sua storia, gli ho chiesto aiuto per prendere il porto d’armi e andare al Poligono a sparare. Poi da cosa è nata cosa. Mi ha insegnato tutto, è diventato il mio compagno ed è il mio primo tifoso».

Rio 2016

Cosa ti è rimasto, a parte Ivano, degli anni di volontariato?
«Certamente ho dato una mano agli altri, ma tutti i percorsi iniziati come volontaria sono serviti soprattutto a me, per imparare ad accettare la realtà della malattia, per vivere a testa alta la SM. La disabilità, che sia dovuta a paraplegia o a sclerosi multipla, non è una cosa da nascondere, soprattutto a se stessi, e neanche agli altri. È una dimensione che costituisce la nostra vita e ci insegna a vivere. Ogni medaglia ha un alto positivo e uno negativo, ogni problema è anche una possibilità. La vita non è tutta bella e non è tutta brutta: bisogna sempre trovare il giusto equilibrio per viverla al meglio, anche con una disabilità. Io e Ivano lo scopriamo ogni giorno, insieme».

 

E come vivi il rapporto con AISM?
«AISM mi ha sostenuta fisicamente e anche psicologicamente. Ed è diventata una famiglia bella da vivere, per me. Sono andata al Centro riabilitativo AISM di Padova pensando di avere compromesso la mia salute psichica, perché non riuscivo ad accettare la mia malattia. Loro mi hanno supportata in tutto. E il supporto fisico che mi ha dato e continua a darmi AISM con la riabilitazione ha costituito, secondo me, la cura vincente per fare sport con successo. Diciamo che curarmi mi ha aiutato a fare sport. E, ugualmente, lo sport che sto facendo mi ha insegnato  a controllare le emozioni, a gestire la pressione, a conquistare quella calma e quella serenità che sono la mia più grande terapia e la mia più grande vittoria». 

 

Cosa speri di ottenere a Rio?
«Andiamo tutti per una medaglia, siamo tutti lì con il desiderio di vincere e siamo tutti molto preparati. Poi l’emozione giocherà il suo ruolo e spero che non la faccia da padrona, visto che sono alla mia prima Olimpiade. La mia speranza è di salirci sul podio, dove non lo so, vedremo».

 

In bocca al lupo allora, Nadia. Ci sentiamo al ritorno. Ricorda: insieme alle Cime di Lavaredo, 110 mila persone con SM saranno lì, in gara, a sostenerti la mano perché centri il bersaglio e colpisca, a nome di tutti, la SM, rendendola, comunque vada, un’immagine di vita da vivere fino in fondo.