Salta al contenuto principale

26/02/2020

Sclerosi multipla, quando la malattia cambia anche la comunicazione medico-paziente deve cambiare

 

La sclerosi multipla è una malattia neurodegenerativa che si presenta in diverse forme, più o meno aggressive. Quella più diffusa, la recidivante-remittente, può evolvere nella forma secondariamente progressiva (SMSP). In questi casi la malattia smette di avere un andamento in cui le ricadute cliniche si alternano a periodi di remissione, e inizia una fase caratterizzata da una disabilità persistente che progredisce gradualmente nel tempo, in presenza o meno di ricadute.

 

Ma come avviene questa transizione? In che modo le persone con sclerosi multipla avvertono il passaggio alla forma progressiva? Quali sono le loro esperienze, e quali i loro bisogni insoddisfatti? È quanto si è chiesto un team di ricercatori guidati da Alessandra Solari del Servizio di Neuroepidemiologia della Fondazione IRCCS Istituto Neurologico Carlo Besta, scoprendo che la transizione verso le forme progressive è una fase della malattia di cui i pazienti hanno poca consapevolezza. Lo studio, pubblicato su PLOS ONE, è stato finanziato da AISM e la sua Fondazione (FISM).

 

L'idea di indagare il vissuto dei pazienti nella fase di transizione della malattia è nata sul campo, all'interno dell'Istituto Neurologico Carlo Besta, come racconta Ambra Giovannetti del servizio di Neuroepidemiologia, primo autore dello studio: «Tutto è nato da una proposta della dott.ssa Valentina Torri Clerici (Centro SM Istituto Neurologico Carlo Besta) che si poneva, da un punto di vista clinico, la domanda su quando e in che modalità fosse corretto parlare di progressione».

 

Di qui la nascita di un progetto di ricerca nato per capire se la letteratura potesse dare una risposta a questa domanda, e quali fossero i bisogni e le esperienze delle persone coinvolte. A prendere parte allo studio, infatti, sono state sia le persone con sclerosi multipla che famigliari e operatori sanitari, per avere uno sguardo il più possibile a 360 gradi su un momento così delicato della malattia. «Lo scopo era quello di comprendere le esperienze della transizione nella forma progressiva delle persone con SM, così come i loro bisogni e le loro richieste, soddisfatti o meno», riprende Giovannetti.

 

I risultati dei colloqui individuali con persone con forma SMSP e della survey online che ha coinvolto oltre 200 partecipanti con le stesse caratteristiche - hanno mostrato che c'è una mancanza di consapevolezza piuttosto diffusa circa la fase di transizione a una forma di malattia secondariamente progressiva. «Questo può avvenire sia perché si tratta di un momento difficile da affrontare psicologicamente, in cui possono emergere meccanismi di negazione/evitamento, sia per problematiche di comunicazione tra operatori sanitari e pazienti», spiega Giovannetti. Può anche capitare che il paziente venga a scoprire di essere passato alla fase progressiva della malattia in maniera indiretta, scrivono gli autori, magari leggendolo nei referti medici.

 

L'altro aspetto emerso chiaramente dallo studio è la possibile difficoltà a distinguere la fase della transizione da quella di un peggioramento tipico delle forme recidivanti-remittenti. Una difficoltà che riflette in parte anche quella di definire clinicamente il momento in cui avviene il passaggio, sottolinea Solari, principal investigator dello studio. «I criteri stessi di classificazione non sono univoci, ma dal momento che nella pratica clinica la classificazione è adottata, è importante che vi sia comunicazione e condivisione con il paziente, anche nelle fasi di incertezza, in cui si sospetta la transizione».

 

In certi casi sono le persone stesse a capire che qualcosa nella storia della loro malattia sta cambiando. «Uno dei campanelli d'allarme più chiari al riguardo è rappresentato dalle condizioni in cui gli esami di risonanza magnetica sono stabili ma la persona peggiora: situazioni che hanno portato le persone con sclerosi multipla a cercare di indagare meglio cosa stesse loro succedendo», prosegue Giovannetti, sottolineando però come le esperienze riferite dalle persone siano molto diverse tra loro. Si va da estremi in cui la comunicazione con gli operatori sanitari è stata buona e proficua, portando ad adottare una serie di strategie per affrontare il cambio di passo della malattia (da quelle mediche a quelle burocratiche-amministrative), a situazioni in cui il paziente ha avuto consapevolezza di questo passaggio scoprendolo durante la sua partecipazione al progetto, a causa di una cattiva comunicazione.

 

Questo non tanto perché il medico o la persona non siano capaci di comunicare e capire, quanto piuttosto perché l'informazione è di per sé complessa. «Anche da parte degli operatori sanitari abbiamo visto atteggiamenti diversi: alcuni affrontano l'argomento subito al momento della diagnosi, altri preferiscono aspettare», continua Giovannetti.

 

Non vi sono linee guida specifiche su come comportarsi in questo caso specifico, aggiunge Solari, ma linee di indirizzo generale sì: «È importante verificare direttamente con la persona che vi sia stata una comprensione delle informazioni trasmesse. La comunicazione deve essere adeguata non solo da un punto di vista tecnico, usando un linguaggio chiaro ed evitando i tecnicismi, ma anche accogliendo le istanze emotive e imparando a gestirle». La comunicazione sotto questo aspetto, continua l'esperta, va intesa come un processo, in cui è innegabile che il tempo a disposizione degli operatori sanitari sia un limite.

 

Sul fronte dei bisogni, accanto alle risposte che i pazienti dichiarano di aver trovato – dall'aiuto di uno psicologo, alla fisioterapia, al contatto e al supporto, molto positivo come sottolineato, con l'associazione di pazienti -  altri rimangono insoddisfatti: «Quello che emerge chiaramente dallo studio è la necessità di lavorare sul bisogno di informazione e comunicazione in un'ottica di shared decision-making, con un maggior coinvolgimento della persona, facendo attenzione a non bombardarlo con troppe informazioni», commenta Giovannetti, «Potrebbe essere d’aiuto creare dei percorsi dedicati alla transizione alla forma secondariamente progressiva, con attività di formazione rivolte a persone con sclerosi multipla e operatori, ma anche ai famigliari, per prepararli a gestire i bisogni dei pazienti nella quotidianità». Ogni informazione, comprese quelle sugli approcci non farmacologici per affrontare la malattia, e attività che aiutino ad alleggerire la burocrazia o a garantire l'autonomia, anche lavorativa delle persone sarebbero d'aiuto, conclude Giovannetti.

 

«Garantire una corretta consapevolezza circa lo stato della propria malattia consente alla persona con sclerosi multipla di mettersi nelle condizioni di affrontare la vita con la SM in maniera diversa, senza avere aspettative irrealistiche – aggiunge Solari – A volte la comunicazione è difficile perché i clinici sentono di non avere strategie terapeutiche da offrire ai propri pazienti in questa fase, ma la ricerca in questo campo va avanti, e anche le strategie basate sulla riabilitazione e sugli stili di vita possono far molto: lo fanno sempre, e in questa fase ancora di più».

 

 

Rerefenza

Titolo: Conversion to secondary progressive multiple sclerosis: Multistakeholder experiences and needs in Italy

Autori: Ambra Mara Giovannetti, Erika Pietrolongo, Claudia Borreani, Andrea Giordano, Insa Schiffmann, Anna Barabasch, Christoph Heesen, Alessandra Solari, for the ManTra Project

Rivista: Plos One

DOI: https://doi.org/10.1371/journal.pone.0228587